PENSIONE QUOTA 100. DIVIETO DI SVOLGERE ATTIVITA’ LAVORATIVA. Illegittimità del provvedimento di recupero integrale della pensione erogata. Natura sanzionatoria. Mancanza di esplicita previsione normativa. Illegittimità ed irrilevanza della Circolare INPS num. 117/2019. Il ruolo interpretativo della Sentenza della Corte Costituzionale num. 234 del 24 Novembre 2022.

post date22 de octubre de 2025  •   post categoriesArticoli, News, Sentenze

SENTENZA TRIBUNALE LAVORO CATANIA NUM. 2823-2025

E’ illegittimo il provvedimento di recupero per l’intero anno della prestazione pensionistica denominata Quota 100 nell’ipotesi in cui il beneficiario dell’erogazione abbia prestato occasionalmente ed in modo del tutto temporaneo un’attività lavorativa subordinata.

E’ illegittima e va, pertanto, disattesa la Circolare  INPS  num. 117/2019 la quale stabilisce che: “il pagamento della pensione è sospeso nell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro di cui ai precedenti paragrafi 1.1. e 1.2, nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui siano stati percepiti i predetti redditi. Pertanto, i ratei di pensione relativi a tali periodi non devono essere corrisposti ovvero devono essere recuperati ai sensi dell’articolo 2033 c.c. ove già posti in pagamento”.

E’ quanto accertato e dichiarato dal Tribunale di Catania Sezione Lavoro al quale si era rivolto un pensionato “Quota 100” che, avendo prestato attività lavorativa subordinata per un solo giorno e riscosso l’importo minimo di € 79,00, era stato destinatario di un provvedimento di recupero coattivo per un ammontare pari a 313 volte la retribuzione occasionale percepita.

Ben chiarisce Corte di appello di Trento, Sez. lavoro 06.02.2025, num. 3 come sia “costante enunciazione della giurisprudenza costituzionale e della Corte di Cassazione, sia civile che penale, il principio dell’inderogabile necessità di rispettare il dato letterale del testo di legge che costituisce un limite insuperabile anche quando si proceda ad un’interpretazione estensiva e che non può essere in alcun modo valicato mediante il richiamo ai lavori preparatori o alla relazione illustrativa (Sez. Unite penali, n. 42124 del 26.06.2023). Questa conclusione è imposta, a livello di Carta fondamentale, dall’art. 101, secondo comma, Cost., il quale, attraverso la previsione che i “giudici sono soggetti soltanto alla legge”, individua in quest’ultima il fondamento ma anche il limite del potere del giudice.

Come chiarito dal giudice delle leggi, “a fronte dell’univoco dato normativo, non si piò esplorare l’interpretazione adeguatrice” (Corte Cost. n. 181 del 2024). Per cui non basta rilevare un inconveniente o una incongruenza o un effetto anomalo d’una legge per trarne un’interpretazione non consentita dalla lettera della legge stessa, poiché quello letterale non è un criterio interpretativo ma il limite d’ogni altro metodo ermeneutico (cfr. Sez. Unite penali, n. 11 del 19.05.1999).     

Ne consegue che il criterio dell’interpretazione logica e sistematica non può servire ad andare oltre quello letterale, quando la disposizione idonea a decidere è chiara e precisa.

Il criterio dell’intenzione del legislatore che, ai sensi dell’art. 12 disp. prel. cod. civ. rappresenta uno dei molteplici criteri per l’interpretazione di una disposizione di legge costituisce solo un canone sussidiario e recessivo rispetto al criterio dell’interpretazione letterale (cfr. Sez. Unite civili 23051/2022; Sez. Unite civili 8091/2020).

Nel caso in cui l’interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o regolamentare, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario della mens legis, il quale acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale soltanto nel caso in cui, nonostante l’impiego del criterio letterale e del criterio teleologico  singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua.

Va altresì escluso, di conseguenza, che la norma preveda una “sospensione del trattamento pensionistico” come si legge a pg. 15 appello.             

Non pare quindi condivisibile taluna giurisprudenza di merito espressasi in senso contrario e segnalata dall’appellante, in virtù della quale evidentemente non si è tenuto in debito conto, secondo i princìpi sopra enunciati, il tenore letterale della norma.

Si deve invero ritenere che, laddove il legislatore avesse inteso escludere il diritto del pensionato alla percezione della pensione per l’intero anno nel cui ambito è stata svolta la prestazione lavorativa, lo avrebbe detto espressamente, anche in considerazione della rilevanza di un simile effetto rispetto ad una prestazione sottoposta alla tutela costituzionale, di rango vitale per la persona in quanto finalizzata a fornire mezzi di sussistenza al lavoratore fuoriuscito dal mondo del lavoro accettando un sacrificio reddituale.

Il sacrificio sarebbe enorme, in quanto, attraverso un atto della pubblica amministrazione che non può assurgere a fonte del diritto, verrebbe imposto un sacrificio non previsto da alcuna norma, che priverebbe di fatto il pensionato dei pur minimi mezzi di sussistenza per un anno intero pur in presenza – nel caso specifico – di redditi di importi assai contenuti e riferiti a periodi di lavoro circoscritti nel tempo.

Ciò si afferma anche in correlazione con l’art. 38 Costituzione comma 2, che impone di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di vecchiaia”.

In altra parte del medesimo dictum, la Corte di Appello di Trento chiarisce, altresì, che: “la circolare INPS sulla quale è stata fondata dall’istituto la disposta ripetizione e interruzione delle erogazioni della pensione di un intero anno solare per il solo fatto che il soggetto ha prestato attività lavorativa come dipendente (e non lavoratore autonomo) per breve tempo, abbia imposto un divieto di “cumulo” non previsto dalla legge. Giova in primo luogo rilevare come non sia pertinente la pronuncia di costituzionalità dell’art. 14 cit. di cui alla sentenza n. 234/2022 che il primo giudice ha ritenuto di non voler osservare. Tale sentenza è stata infatti resa nell’ambito di una diversa questione, e non ha quindi alcuna rilevanza nella presente controversia. In particolare la Corte non ha dichiarato la legittimità della sospensione della pensione per l’intero anno a fronte della percezione di un reddito da lavoro subordinato, riguardando la pronuncia solo la prospettiva del reddito percepibile nel contesto di un lavoro autonomo. In secondo luogo si ritiene agevole, anche sulla scorta della corretta terminologia giuridica, che il concetto di non cumulabilità non possa esser confuso, come invece pare abbia fatto INPS, con quello di assoluta incompatibilità, tale da determinare la revoca di un intero trattamento pensionistico.

Quindi che la pensione quota 100 “non sia cumulabile” sta ad indicare che non è consentito al pensionato di quota 100 percepire due importi, uno da pensione e uno da reddito per lavoro subordinato nello stesso arco temporale, cioè appunto “cumulando” i due redditi.

La tesi dell’istituto è quantomai singolare anche alla luce di una esemplificazione contenuta nella stessa circolare in tabella esemplificativa (come riportata in appello a pg. 10, paragrafo 2.2) laddove pare che il discrimine derivi non tanto o non solo dal momento in cui l’attività viene prestata bensì dal momento in cui il reddito è (materialmente, effettivamente) percepito (vale a dire incassato): anche siffatto intendimento non pare in linea con la disposizione della circolare, fornendo piuttosto uno spunto favorevole alla soluzione adottata dal primo giudice e che viene qui ribadita.

Cosicchè, laddove fosse accaduto che il sig. S. avesse percepito il reddito da lavoro dopo il compimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia, anche se si fosse trattato di lavoro subordinato svolto prima di tale data, il “cumulo” sarebbe stato legittimo”.

Anche Corte di Appello di Brescia, sezione lavoro, nelle pronunce num. 47 dell’11.03.2025 e 81 del 15.04.2025 (anch’esse successive all’obiter dictum di Cass. 30994/2024) ha fatto proprie le superiori considerazioni affermando: “Questa Corte è consapevole dell’autorevolezza del precedente costituito dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, richiamata dall’INPS; tuttavia, tenuto anche conto che si tratta, allo stato, di una pronuncia isolata, ritiene di non poter condividere il parametro dell’intero anno solare usato dalla Suprema Corte in detta sentenza.

Le norme di riferimento, infatti, non prevedono la perdita della pensione per l’intero anno solare nel caso di rioccupazione; non è contemplata, in altri termini, alcuna decadenza ex tunc dal diritto a percepire la pensione, decadenza che si traduce in una sanzione la quale avrebbe dovuto essere prevista espressamente, comportando la mancata erogazione della pensione per tutto l’anno, anche in relazione a periodi anteriori (e successivi) alla rioccupazione nei quali il pensionato non ha percepito alcun reddito da lavoro e non vi è stata alcuna violazione del divieto di cumulo.

In altri termini, i ratei di pensione la cui erogazione dev’essere sospesa, a parere del Collegio, sono soltanto quelli oggetto del divieto di cumulo, e cioè quelli relativi alle mensilità in cui il pensionato cumuli la prestazione con redditi da lavoro dipendente, rispetto alle quali vi è senza dubbio una frustrazione della finalità solidaristica e della creazione di nuova occupazione che il legislatore ha voluto assegnare alla pensione quota 100 e alla previsione del divieto di cumulo.

Né, diversamente, quanto sostenuto dall’INPS, l’efficacia ex tunc del divieto di cumulo è desumibile dall’espressine “a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia” utilizzata dall’art 14 del D.L. n. 4 del 2019.

Tale espressione, infatti, è tesa soltanto a delimitare l’arco temporale durante il quale vige il divieto di cumulo (e non invece a delimitare il periodo di sospensione della pensione).

Durante tale periodo, la pensione e il reddito da lavoro dipendente non sono cumulabili, ma la sospensione dell’erogazione della pensione interviene solo nelle mensilità in cui sussiste la violazione, a ciò in quanto il pensionato, nei mesi in cui non aveva ancora ripreso il lavoro (e nei mesi successivi dopo la cessazione del lavoro), aveva pieno diritto di beneficiare della pensione.

Oltretutto, simile interpretazione pare trovare conferma nella stessa circolare dell’INPS n. 117 del 9 agosto 2019 (“Pensione quota 100” ai sensi dell’articolo 14 del D.L. 28 gennaio 2019, n.4, convertito, con modificazioni, dalla L 28 marzo 2019, n. 26. Chiarimenti in materia di incumulabilità della pensione con i redditi da lavoro e valutazione dei periodi di lavoro svolto all’estero ai fini del conseguimento della stessa”), la quale al punto 1.4 dispone: “Il pagamento della pensione è sospeso nell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro di cui ai precedenti paragrafi 1.1. e 1.2, nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui siano stati percepiti i predetti redditi. Pertanto, i ratei di pensione relativi a tali periodi non devono essere corrisposti ovvero devono essere recuperati ai sensi dell’articolo 2033 c.c. ove siano già posti in pagamento”. La stessa circolare, quindi, allude alla sospensione dell’erogazione dei ratei di pensione relativi ai mesi dell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro dipendente.

La sospensione dei ratei di pensione soltanto nei periodi di violazione del divieto di cumulo appare dunque la soluzione più conforme a diritto, oltre che più equa”.