Usucapione dei beni ereditari da parte del coerede: è possibile?

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Può un coerede, rimasto nel possesso del bene ereditario dopo la morte del de cuius, diventarne proprietario esclusivo, usucapendo le quote di spettanza degli altri coeredi? Il potere di fatto dallo stesso esercitato sulla cosa, pur avendo le caratteristiche richieste ai fini dell’usucapione, è sufficiente a consentirgli di usucapire le quote degli altri eredi?

Sul tema è più volte intervenuta la Suprema Corte di Cassazione che, innestandosi nel trend giurisprudenziale ormai consolidato, ha fissato il seguente principio di diritto: “Il coerede che, dopo la morte del “de cuius” sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento  altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”. Non è, al riguardo, univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione “iuris tantum” che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri”.

Per meglio comprendere i termini della vicenda, occorre ricordare che, quando una pluralità di chiamati accetta l’eredità, sui beni facenti parte del patrimonio relitto si forma una comunione ereditaria alla quale ciascun coerede partecipa in misura corrispondente alla quota allo stesso attribuita dalla legge o dal testamento.

Per espressa disposizione legislativa, ciascuno dei chiamati può domandare sempre la divisione della massa relitta, anche nell’ipotesi, disciplinata dall’art. 714 cod. civ. – rubricato “Godimento separato di parte dei beni” – in cui uno dei coeredi abbia goduto dei beni in maniera separata, purché, recita la norma, non si sia verificata l’usucapione per effetto di un possesso esclusivo.

L’art. 714 cit., contrapponendo, dunque, al possesso esclusivo dei beni ereditari il cd. godimento separato degli stessi, individua due diverse fattispecie: la prima disciplina il godimento separato dei beni ereditari da parte di un coerede, tale tuttavia da non escludere gli altri coeredi; la seconda riguarda invece la fattispecie in cui l’usucapione si verifica per effetto di possesso esclusivo.

In siffatta ultima ipotesi di possesso esclusivo, l’usucapione avverrebbe a prescindere da un atto di interversione del possesso, perché i coeredi sono già possessori – e non detentori – dei beni ereditari, per cui un mutamento del rapporto con la res, che da detenzione si trasformi in possesso, non sarebbe formalmente possibile.

Non solo. Deve considerarsi che la prova di un possesso esclusivo non è di agevole formazione tenuto conto che essa deve combinarsi con la presunzione iuris tantum secondo cui il coerede, che si limiti ad amministrare e utilizzare il bene nell’interesse comune di tutti i coeredi, assume la veste di mandatario tacito degli altri compartecipi.
La Suprema Corte nel riconoscere una siffatta possibilità, come effettivamente prevista e regolata dal richiamato art. 714 cod. civ., tuttavia, ne restringe correttamente i confini al fine di evitare agevoli strumentalizzazioni e capziosi comportamenti del coerede tesi a nascondere la volontà di escludere gli altri coeredi dal compossesso.

Tali strumentalizzazioni, infatti, potrebbero agevolmente essere preordinate ad opera del coerede che intendesse in mala fede avvantaggiarsi della disponibilità e dell’inattività degli altri coeredi giustificata esclusivamente dagli affetti procurati dagli stretti vincoli di sangue tra le parti.

Il ristretto margine di operatività dell’usucapione tra coeredi, come disegnato dalla Suprema Corte, risponde all’ovvia esigenza di evitare un rischio siffatto.

La Suprema Corte, affinché possa configurarsi l’usucapione tra coeredi, pretende, dunque, che il possesso animo proprio ed a titolo di comproprietà del coerede si estenda in misura tale da trasformarsi in possesso in termini di esclusività, precisando, a tal uopo, che: “…il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune(Ibidem: Cass. Sez. 2, Sentenza n.  7221 del 25/03/2009; Cassazione num. 24214 del 13.11.2014).

Siffatta astensione configura infatti la disponibilità degli coeredi di astenersi dall’uso della cosa comune per evidenti rapporti di fratellanza senza per ciò solo avere essi mai inteso dismettere la loro (com)proprietà ed il loro compossesso!

Insegna a tal uopo la statuizione della Suprema Corte che: “Il coerede o il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa della cosa comune, dimostrando l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso ma di possesso esclusivo (“uti dominus”) e senza opposizione per il tempo al riguardo prescritto dalla legge, senza la necessità di compiere atti di “interversio possessionis” alla stregua dell’art. 1164 cod. civ., potendo, invece, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui; viceversa, non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad un estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore” (Cass. Sez.2, Sentenza num.16841 del 11/08/2005).

Ancora chiarisce la Corte Suprema che: “Il coerede può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi, senza che sia necessaria una vera e propria interversione del titolo del possesso, esercitando il potere di fatto sul bene in termini di esclusività; a tal fine, peraltro, non è sufficiente che gli altri coeredi si siano astenuti dall’uso del bene in comune, occorrendo che quello fra i coeredi, il quale invochi l’usucapione, abbia goduto del bene stesso in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus“, senza opposizione per il tempo utile ad usucapire; ne’ tale comportamento può consistere solo in atti di gestione del bene comune o in atti tollerati dagli altri coeredi, ne’, infine, rilevano le variazioni catastali che egli abbia ottenuto, ove non provi d’averle portate a conoscenza degli altri compossessori o che questi l’abbiano altrimenti conseguita senza alcuna reazione. L’onere della prova di tale dominio esclusivo sulla “res” comune grava sull’usucapiente(Cass. Sez. 2, Sentenza n.13921 del 25/09/2002 ).

Ancora. “Il coerede che dopo la morte del “de cuius” sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”. Non è, al riguardo, univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione “iuris tantum” che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri” (Cass. Civile, Sez. II, 16.01.2019 num. 966; Cass. Civ. 04.05.2018 num. 10734; Cass. Civ. 25.03.2009 num. 7221).

In materia di usucapione di un bene in comproprietà da parte di uno dei comproprietari, la volontà di possedere uti dominus e non uti condominus non può desumersi dal fatto che il comunista abbia utilizzato il bene comune provvedendo al pagamento e alla manutenzione, sussistendo una presunzione iuris tantum che egli abbia agito nella sua qualità e che abbia anticipato le spese anche relativamente alla quota degli altri. Pertanto, il comproprietario che invochi l’usucapione ha l’onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato con palese manifestazione della volontà in modo da escludere gli altri dalla possibilità di instaurare analogo rapporto con il bene, dovendo atteggiarsi quale proprietario esclusivo dell’intero bene e non della propria quota, manifestando, altresì, tale volontà in modo inequivoco anche agli altri comproprietari, non essendo sufficiente che essi si astengano dal godimento del bene. Nel caso di specie, il Tribunale ha rigettato la richiesta di usucapione dell’attore, comproprietario di un appartamento insieme al fratello a seguito di lascito ereditario, in quanto nonostante questi abbia avuto possesso continuato e pubblico del bene e ne abbia curato la manutenzione per oltre vent’anni, non aveva fornito la prova della volontà di escludere dal compossesso il fratello” (Tribunale sez. I – Bari, 30/07/2018, num. 3356).

La costante giurisprudenza ritiene, infatti, che l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di un immobile in comunione ereditaria non può assurgere ad elemento decisivo, ai fini dell’intento usucapitivo, neppure quando il coerede domandi personalmente il rilascio della relativa autorizzazione amministrativa e, poi, sostenga i relativi costi (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 13.11.2014 num. 24214; Cass. 1999/7075; Cass. 1999/1370), “giacchè, come detto, allorché un coerede utilizzi ed amministri un bene ereditario provvedendo al eseguirvi lavori od opere, sussiste la presunzione iuris tantum che agisca in tale qualità e che anticipi le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi” (cfr. in tal senso, la medesima Cass.  Civ., Sez. II, 13.11.2014 num. 24214 che cita controparte a sostegno della propria fantasiosa teoria; inoltre, si legga Cass. Civ., 3 maggio 2018, num. 10512).

In definitiva, gli Ermellini hanno escluso che il coerede debba fornire la prova di un atto di interversione del possesso, ma, ai fini dell’usucapione dei beni comuni a discapito degli altri coeredi, è necessario, dunque, che il compossessore adduca una prova “ridondante e diversa” da quella richiesta per l’usucapione da parte del terzo.

Tale quid pluris è solitamente individuato dalla giurisprudenza nella prova di elementi che rendano evidente all’esterno “l’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus”.

Occorre, cioè, che il coerede dimostri in modo particolarmente rigoroso, di aver esercitato il potere di fatto sulla cosa come se fosse l’unico proprietario e con l’intento di escludere in modo visibile gli altri coeredi dal medesimo possesso.

Ciò in quanto, la granitica giurisprudenza è concorde nel ritenere che il possesso integrale di un bene ereditario e, dunque, il suo godimento solitario non sono, da soli, sufficienti a determinare il possesso ad excludendum e, per ciò, a far decorrere il termine per l’usucapione.

A tale riguardo, le molteplici statuizioni della giurisprudenza di legittimità contribuiscono a chiarire se una determinata situazione di fatto sia o meno idonea ad integrare un possesso ad escludendum valido ai fini dell’usucapione.

Ad esempio, costante giurisprudenza ritiene che la disponibilità delle chiavi non sia di per sè sufficiente a dimostrare il possesso ad escludendum, in quanto essa prova “semplicemente la detenzione attuale del bene da parte del terzo, rimanendo del tutto indimostrato il possesso pubblico, pacifico, continuato ed ininterrotto dell’immobile per oltre un ventennio, tale da determinarne l’acquisto per usucapione” (cfr. Ordinanza Tribunale di Napoli, 07.06.2018).

Non è parimenti ritenuta dirimente la circostanza di richiesto le autorizzazioni amministrative per la realizzazione di lavori di ristrutturazione e la loro conseguente realizzazione, ovvero di aver provveduto al mero pagamento delle utenze o degli oneri straordinari, nel presupposto che vige la presunzione iuris tantum di aver agito, sulla base di un mandato (tacito) nell’interesse di tutti gli altri coeredi (cfr. Cass. Civ. 09.09.2019 num. 22444; Cass. Civ. 21.02.1985 num. 1529);

Non vale a ritenere raggiunta la prova del possesso ad escludendum l’essere l’unico, tra i coeredi, ad aver continuato a vivere nell’appartamento del proprio genitore, essendo state ravvisate ragioni di tolleranza e di ospitalità alla base della disponibilità del bene (cfr. Cass. Civ. 16.01.2019 num. 966);

L’aver utilizzato ed amministrato il bene ereditario, anche oltre i limiti dell’ordinaria amministrazione non integra gli estremi dell’atto di apprensione automatica ma dettato da ragioni di solidarietà familiare (cfr. Cass. Civ. 03.05.2018 num. 10512);

Occorre, al contrario, quali elementi utili ad integrare un possesso pieno ed esclusivo, l’aver posto in essere atti tali da escludere in modo visibile il compossesso da parte degli altri coeredi, come ad esempio l’aver modificato le serrature, le conseguenti doglianze da parta dei coeredi volte a lamentare una siffatta esclusione.

In particolare, la Suprema Corte, con Sentenza del 18.12.2013 num. 28346, ha ritenuto assolto l’onere della prova di un possesso esclusivo, stigmatizzando che “nel caso di compossesso non è necessaria una formale interversione del possesso e che l’animus possidendi uti dominus può manifestarsi anche solo con comportamenti che lo rendono evidente. In particolare, la Corte di merito ha affermato: a) che il coerede o il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa della cosa comune estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività dimostrando l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo per il tempo prescritto dalla legge senza la necessità di compiere atti di intervesio possessionis. b) che il coerede che a seguito di messa a disposizione del compendio ereditario, sia stato immesso nel possesso di questo senza un mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi, prende per tale via a possedere pubblicamente e a titolo esclusivo (dato che il rapporto materiale con il bene che si è venuto ad instaurare ha reso palese la manifestazione della volontà di non consentire agli altri coeredi di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene ereditario) e può, quindi, usucapire il cespite senza che sia necessaria una mutazione negli atti di estrinsecazione del possesso tale da escludere un pari godimento da parte degli altri coeredi. In particolare, l’art. 714 c.c. per l’usucapione del coerede non richiede atti di interversione del possesso, ma solo l’esercizio del possesso esclusivo.

Sulla base di tali principi la Corte ha accertato che il convenuto per tutto il periodo necessario ad usucapire e fin dal suo inizio aveva manifestato la sua intenzione di possedere l’appartamento in modo esclusivo: a) nessuna contestazione è stata mai mossa dagli attuali ricorrenti alla circostanza che il medesimo coerede usucapiente sin dal 1970 si sia trasferito nell’appartamento sito al primo piano dell’edificio in questione e abbia goduto del bene in via esclusiva insieme alla moglie e alla figlia circostanza confermata dagli stessi appellanti che attribuiscono l’esclusività del possesso esercitato al rispetto e alla riservatezza della nuova famiglia riconducibile a sentimenti di solidarietà familiare da parte dei aprenti (pag. 11 sentenza); b) il convenuto ha posto in essere tutti gli atti escludenti un concomitante analogo godimento del bene da parte degli altri soggetti e degli altri coeredi: 1) ha eseguito nell’appartamento opere di ordinaria e straordinaria amministrazione come il completo rifacimento del bagno con sostituzione della pavimentazione, dei sanitari e dell’impianto idrico, l’applicazione dei vetri termici agli infissi, l’installazione di nuovi avvolgibili in luogo delle precedenti imposte, il rifacimento del pavimento con inserimento del nuovo caminetto con rivestimenti in marmo;

2) ha assolto nell’intero arco temporale tutti gli oneri fiscali gravanti sull’immobile,

3) ha provveduto ad ottenere le autorizzazioni amministrative per la realizzazione delle notevoli migliorie.

Pertanto, correttamente la Corte di merito ha ritenuto che nel comportamento del P. sostanzialmente non contestato, non erano ravvisabili soltanto atti di gestione del bene comune consentiti al singolo coerede, bensì l’esercizio del possesso animo domini con la manifesta intenzione di non riconoscere nei confronti degli altri coeredi alcun diritto sul bene di cui si dice”.